2.
Origini di Gallicchio e primi feudatari.
Le prime
notizie
storicamente certe sull’esistenza del paese attuale
si hanno solo dopo
all'anno 1000. Nel 1059 si celebrò il primo concilio di Melfi, capitale della
Contea di Puglia, presieduto dal papà
Niccolò II che convocò i vescovi di rito latino e i conti normanni con lo scopo di raggiungere un' alleanza con i nuovi dominatori
, che si erano già impadroniti di gran parte della Basilicata, della Puglia,
della Campania e della Calabria, e che lo avrebbero aiutato a perseguire la sua politica.
L'assise rivendicò i diritti del papato sulle province ecclesiastiche di rito
bizantino nel Sud Italia e avviò una lotta per far scomparire la gerarchia
bizantina e per sottomettere la Chiesa al primato
di Roma . Niccolò II intervenne su alcune strutture del clero della Basilicata,
elevando, in particolare, la diocesi di
Acerenza ad
arcidiocesi
metropolitana.
L'arcivescovo di Acerenza Godano ebbe
l'incarico di latinizzare quelle chiese che nell'antico
Tema di Lucania si
dichiaravano soggette alla chiesa greca e siccome i vescovi di Tricarico e
Montepeloso erano stati deposti dal concilio perchè si erano rifiutati di
accetttare il rito latino, Godano, dopo aver unificato le due diocesi, consacrò come vescovo
di Tricanico Arnaldo, pastore di rito latino.
Con una bolla del giugno del 1060 l'arcivescovo Godano indicò la
nuova giurisdizione del vescovo Arnaldo a cui vennero affidati 54 tra chiese cappelle e monasteri esistenti sul territorio diocesano. Tra
i 12 monasteri concessi viene annoverato anche il “Monasterium
Gallicclum", insieme
ai vicini monasteri
di Missanello, di Palumbara e di Galaso (in territorio di Armento) e di S. Vitale
presso Guardia Perticara.
Tra la fine del sec. X e
i primi anni del secolo successivo, si moltiplicarono in tutto il
Meridione i monasteri fondati da monaci bizantini, abitualmente detti
Basiliani, anche se, per alcuni, più che di
veri monasteri si dovrebbe parlare di eremi o di minuscole chiese o
semplicemente di grotte adattate a cappelle. Monaci eremiti giunsero in Calabria
già nel secolo VII provenienti dalla Siria, dalla Libia, dall'Egitto:
lasciavano i loro paesi devastati dalle prime invasioni arabe (636-638).
L'emigrazione continuò nel secolo VIII, anche in seguito alla persecuzione
iconoclasta scatenata, nel 726, dall'imperatore
Leone III Isaurico. I monaci che
venivano in Italia per sfuggire all'ira iconoclasta dovettero dirigersi verso le
zone dell'Italia meridionale longobarda (Calabria settentrionale, Lucania
occidentale,
Campania), perchè nelle regioni italiane direttamente dominate dai bizantini
vigevano le stesse leggi delle zone orientali dell'Impero. Nacquero allora i primi stanziamenti monastici del monte Bulgheria, a sud di
Salerno, e del
Mercurion,
(dal fiume
Mercure) al
confine calabro-lucano. L'importanza di queste sedi
monastiche, poste sui monti ai confini calabro-lucano-campani, crebbe in seguito
all'invasione araba della Sicilia, regione che nel 902 (caduta di Taormina) era
già totalmente sotto il dominio musulmano.
Quasi tutti i monaci che vivevano in
Sicilia passarono, allora, lo stretto, e si diressero a nord cercavando luoghi montani, meno soggetti alle scorrerie musulmane, dove fondarono i primi
monasteri, anche se molti asceti continuarono a cercare la perfezione in una
vita di perfetta solitudine.
Dopo il 952 molte comunità italo-greche spaventate dalle voci della
rapida e sanguinosa avanzata in Calabria dell’emiro El-Hassan che alla testa di
numerose orde mussulmane stava per invadere il Mercurion, si spostò nella zona
del Latinanion nel
medio corso del fiume Sinni. Li conducevano nella loro
marcia S.Saba da Collesano e suo fratello S.Macario i quali, giunti nei pressi
di un gran castello, eressero un monastero fortificato dedicato al santo martire
Lorenzo. Da qui S.Saba diede inizio alla sua azione pastorale e all’espansione
del monachesimo basiliano in Basilicata.
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Le vite di alcuni famosi
santi monaci italo-greci forniscono importanti notizie storiche
anche sulla fondazione o sulla frequentazione di monasteri della nostra zona. San
Luca di Demenna, città siciliana presso
Alcara, dopo un primo periodo passato nel monastero di S. Filippo di Argiro,
sull'Etna, andò in Calabria ove s'incontrò con S. Elia di Reggio, lo Speleota,
che viveva in una grotta presso Melicuccà; di qui, poi, in seguito all'invasione
della Calabria dell'emiro Hasan, Luca risalì tutta la Calabria e si fermò presso
Noia (l'attuale Noepoli) in Basilicata. Fondò, poi, il monastero di S. Giuliano,
nell'alta Val d'Agri, e, quindi, quello dedicato alla Madre di Dio e a S.
Pietro, presso Armento ove morì, assistito da S. Saba, nel 984.
Probabilmente a causa dell'omonimia, si è confuso questo santo, di origine
siciliana e morto in Basilicata, con l'altro S. Luca, nato ad Armento e
fondatore intorno al 971 del celeberrimo monastero dei Santi Elia e Anastasio
presso Carbone, dove morì nel 995
assistito sempre da S. Saba.
Un altro santo proveniente dalla Sicilia S. Vitale da Castronuovo, dopo essersi
fermato prima a S. Severina, in Calabria, e poi a Petra Roseti (forse l'attuale
Roseto Capo Spulico), passò il Pollino e giunse in Lucania
dirigendosi verso S. Chirico Raparo. Alle falde di questo monte visse per
qualche tempo in una grotta solitaria che poi abbandonò per sostare,
intorno al 968, presso il monastero di S. Elia a Missanello. L'afflusso
continuo delle popolazioni vicine a quel cenobio attratte dalla sua fama di
santo, lo costrinsero
ad abbandonare il luogo per dirigersi verso Armento e Turri.
E' possibile che uno dei i primi abati del monastero di S. Elia
che, che come abbiamo visto nel 968 esisteva già, fosse stato S. Senatro,
fratello di San Luca di Demenna,
che visse e morì proprio in questo monastero. |
Del monastero di Gallicchio, invece, non si fa
alcun cenno nella letteratura agiografica
relativa ai monaci basiliani, ciò
nonostante è possibile che la sua fondazione sia legata alla venuta
nelle nostre contrade di santi come di S. Vitale, San Luca, San Senatro.
I Basiliani avevano sviluppato tre forme di monachesimo: due più tipiche,
l'eremitica, la cenobica ovvero comunitaria, e una terza speciale
detta
lavra, poi laura, che raggruppava un certo numero di celle individuali o di
grotte intorno a una casa comune.
Queste celle erano abitate da “semi-eremiti”
che si radunavano insieme per il culto a scadenze settimanali. La numerosa
presenza di grotte nella zona ai piedi del paese, attualmente detta non a caso
"Fosso dei Monaci", sottolinea la possibilità che anche a Gallicchio
i Basiliani avessero sviluppato un insediamento organizzato in grotte.
I monaci bizantini dopo essersi stanziati in un luogo venivano
naturalmente a contatto con i poveri contadini che vivevano nelle zone
circostanti, insegnando loro, oltre che i principi della fede, i primi
elementi della vita civile. I Basiliani
curavano il
prosciugamento delle paludi e destinavano le terre incolte alla coltura
dell’olivo, della vigna, del grano. Agevolando la piccola proprietà contadina,
resero addirittura di uso comune i due contratti di enfiteusi (diritto di godere
di un fondo altrui con l’obbligo di apportarvi migliorie e di corrispondere
periodicamente un canone). Per organizzare il lavoro fondavano i casali, centri
urbani di piccole entità. Niente di più probabile, quindi, che anche Gallicchio
nascesse come un piccolo nucleo abitativo organizzatosi intorno al monastero
basiliano, trasformandosi nel giro di qualche decennio in un borgo di più vaste
dimensioni..
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Alcune grotte del Fosso dei Monaci |
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Infatti se
ancora nel bolla del papa Pasquale II del 13 aprile 1102 ,
che riconfermava al vescovo di Tricarico tutte le terre,
le chiese e i monasteri citati nella bolla di Godano, Gallicchio
viene ancora citato come monastero dipendente da quello
più famoso di Carbone, nella bolla del papa Callisto II del
1123, che definisce la circoscrizione territoriale del nuovo
vescovo di Tricarico, Pietro, Gallicchio, come gli altri
centri vicini, figura non più come monastero, ma
come parrocchia. Si era, quindi, sicuramente costituita una
comunità di fedeli la cui cura
pastorale era affidata a un parroco.
Il
processo di rilatizzazione della lucania bizantina, iniziato nei
territori controllati dai normanni con
i concilio di Melfi del 1059, sembra a questa data completato, essendo
subentrate le parrocchie rette dal clero di rito latino ai
piccoli monasteri amministrati dai monaci di rito greco.
All'inizio del XII sec.
l'egemonia normanna si era ormai estesa a tutto il
mezzogiorno, Sicilia compresa. Nel
1130
Ruggero II
d'Altavilla (1101-1154),
dopo una lunga lotta col cugino Guglielmo, fu incoronato ad
Avellino da papa Anacleto re di Sicilia, Calabria e Puglia.
Ruggero II conquistò poi tutti gli altri territori appartenenti
ai Normanni di Melfi, il ducato Napoli, che aveva fino ad allora
mantenuto l'indipendenza, ma anche il principato di Capua, ed
estese i propri domini anche agli Abruzzi.
Nella sua lunga reggenza Ruggiero ebbe il merito di dare un
ordinamento ed una legislazione unitaria al Regno: egli prima
trasformò i vecchi feudi in Camerariati e
Giustizierati (
nasceva così il Giustizierato di Basilicata) e successivamente
istituì appositi registri (quaterni fiscales) per definire
adeguatamente i confini dei feudi.
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Il mappamondo di El
Edrisi nella
riproduzione per il re
Ruggero di Sicilia
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Intorno al 1145 fu invitato a Palermo, alla sua
corte,
El Edrisi, un geografo arabo che aveva viaggiato per
tutti i paesi del mar mediterraneo. Nel El Edrisi 1154
realizzò per il sovrano un planisfero, inciso su una
lastra d'argento, andato purtroppo distrutto in occasione d'una
sommossa contro il sovrano
Guglielmo I di Sicilia nel marzo 1161 , al quale
s'accompagnava un famoso libro di geografia " Liber ad eorum
delectationem qui terras peregrare studeant" (Il sollazzo
per chi si diletta di girare il mondo, Kitāb nuzhat
al-mushtāq fī ikhtirāq al-āfāq), chiamato "il libro di
Ruggero" (Kitāb Rugiār o Kitāb Rugiārī),
finito verso il 1154. L'opera, che è un'eccezionale
testimonianza della cultura geografica del XII secolo, è
particolarmente imortante per la storia di Gallicchio perchè il
geografo arabo descrivendo la Basilicata e più in particolare la
Val d'Agri così annota: " (...) anche il fiume Agri ha la sua
sorgente sul versante occidentale nel monte Sirino (...); nel
retroterra da cui ha origine questo fiume sono città e castelli.
Da Tursi a Monemurro sono dodici miglia, tre miglia intercorrono
tra Montemurro e Armento (....) Sei miglia sono da S. Arcangelo
al castello di Missanello e due da questo munitissimo castello a
Gallicchio". La relazione di El Edrisi ci
conferma che nel 1154 Gallicchio esisteva già come paese.
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Durante il regno di Ruggero II, tra il 1150 e il 1152, fu
redatto dalla Duana Baronum, l'ufficio regio
preposto agli affari feudali, un altro
importantissimo documento: il Catalogus Baronum (Catalogo
dei Baroni) l'elenco , cioè, dei nomi dei
feudatari
(sia di quelli che detenevano feudi in capite de
domino Rege, ossia, ricevuti direttamente dal re,
sia di coloro che li avevano ottenuti da un conte o da
un barone),
lo stato giuridico dei feudi, e l’entità del servizio
militare dovuto in relazione al loro possesso,
essendo previsto
l'obbligo di fornire al sovrano "miles", ossia un cavaliere armato
con armigeri e scudieri, per ogni 20
once di rendita
feudale. Nel 1161, nel
corso della già citata rivolta contro
Guglielmo I,
successore di Ruggero II, il Catalogo venne
gettato, insieme a quasi tutti gli altri documenti
amministrativi del Regno, nel grande falò acceso nel
cortile del palazzo reale, e andò distrutto. Dopo la
soppressione della rivolta, il Catalogo venne
ricostruito, largamente a memoria, dal notaio
Matteo D'Ajello e venne completato e rivisto tra
il 1167-68,
durante il regno di
Guglielmo II che impose ai feudatari di
fornigli il doppio dei militi " pro auxilio magna
speditione ad Terram Sanctam". Il Catalogus
Baronum è un preziosissimo strumento per
accertare l'identità dei signori,
l'estensione delle loro proprietà e, quindi, per ricostruire
la storia e la toponomastica dei luoghi in esso citati.
Purtroppo per quanto
riguarda l'individuazione del feudo di Gallicchio il testo pone
qualche problema di
interpretazione.
Infatti
nella sezione relativa al
Principato di
Taranto (De Principatu Tarenti), circoscrizione
territoriale della Contea di Tricarico (De Comestabulia
Comitatus Tricarico; De
Montepiloso), dopo aver parlato dei
possedimenti in Aliano superiore, Aliano inferiore, Turri e Guardia di un
certo Givano Rubeus, il
curatore del catalogo aggiunge:
"Isti
sunt qui tenent de praedicto Givano.
Guillelmus
de Caelum tenet de eo, sicut dixit, in Aliano
inferiori feudum I. militis. et cum augmento obtulit
milites II. et servientes IV.
Alexander
de Gallipoli tenet de
eо
Gallipolim, quod est feuduml I. militis. et cum
augmento obtulit milites II. et servientes IV.
Guillelmus
de
Messanello tenet de praedicto Alexandro
fratre suo Messanellum, quod est feudum I.
militis. et cum augmento obtulit milites II. et
servientes IV."
Tralasciando
le considerazioni che si potrebbero fare sulla
figura di Givanus Rubeus di cui, comunque, non si
comprende bene il ruolo, la parte del testo che
attira immediatamente l'attenzione è l'uso
del toponimo
"Gallipolim" riferito al feudo in possesso
di Alessandro, fratello del feudatario di Missanello
Guglielmo.
Sembra, infatti, difficile che possa trattarsi della
Gallipoli città pugliese, attualmente in provincia di Brindisi, che pure a all'epoca
già esisteva e faceva parte del Principato di Taranto,
per l' enorme distanza che intercorre tra questa e altre le
località menzionante nel catalogo come
appartenenti alla Contea di Tricarico, nè
tantomeno dell'antica città di Gallipoli che doveva
sorgere in Basilicata nella zona dell'attuale Parco di
Gallipoli-Cognato, perchè nello stesso catalogo si
legge prima: "Goffridus Tortamanu dixit quod tenet
feudum in capite a Domino Rege in Montorone,
feudum II militum (....). De Gallipoli quod tenet in montanea debet
inquirere Camerarius", e poi "Goffridus
Tortamanu dixit quod tenet Gallipolum de Montana qui est
feudum I. militis e cum augmento obtulit II milites.",
da cui si desume che quella città veniva indicata come
Gallipoli di Montagna e apparteneva a Guglielmo
Tortamano. Si può, quindi, pensare che ci sia
stato un errore del curatore dell'opera,
o dei copisti che l'hanno nel tempo trascritta, nel riportare il nome
latino di Gallicchio, che appare nei documenti antichi
sempre sotto forme diverse (Gallicclum, Calichium, Gallucium, Gallichium),
tenendo anche presente che spesso ancora oggi Gallicchio
viene confuso con Gallipoli. D' altronde i
luoghi citati nel passo del catalogo che ci interessa,
Aliano, Guardia , Missanello, sono tutti a pochi
chilometri in linea d' aria dal nostro paese , e la
stessa Turri, antico borgo scomparso dopo il 1324, sorgeva nei pressi del fiume Agri, come
tesimonia El Edrisi nel Libro di Ruggero: " (...) il
fiume Agri (...) arriva a Turis
e a Sant'Arcangelo fronteggiandoli alla sinistra
di un miglio e mezzo dalla prima località ma molto
meno dalla seconda". Si
potrebbe, perciò, ipotizzare che l'
"Alexander de Gallipoli" del Catalogus Baronum fosse il primo feudatario di
Gallicchio e che avesse ceduto il feudo di Missanello al
fratello Guglielmo nel momento in cui gli erano
stati infeudati e concessi i nuovi
possedimenti D'altra parte,
visto che Gallcchio non viene citato in nessun altro
luogo del catalogo,
sarebbe impensabile che potesse restare, durante la
dominazione normanna, al di fuori di
qualsiasi feudalità, pur essendo presumibilmente un piccolo nucleo
abitativo.
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Stemma della famiglia
Messanello |
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Nella genealogia della famiglia
Messanello di Carlo De Lellis, riportata in "Nuove Luci
Lucane" dei fratelli Robertella, Alessandro e
Guglielmo, figli di un altro Guglielmo,
figurano rispettivamente come il 3° e il 4° signore di
Missanello. Il capostipite dei Messanello era un certo
Osmondo (o
Osmundo), uno
dei tanti cavalieri giunti in Italia come mercenario, al
seguito del nobile normanno
Roberto il Guiscardo, che
per premiarlo della sue imprese lo aveva nominato Signore
di Missanello (feudo da cui aveva preso il nome)
col titolo di Cavaliere. Si sa che Osmundo nel 1071
aveva fatto costruire
a proprie spese la chiesa e la Badia di S.
Stefano, in Marsico Nuovo e l' aveva donata poi al Vescovo di
quella città. Nel 1092 aveva presenziato a una
donazione effettuata in favore del monastero della S.S.
Trinità di Venosa:
"Anno
1092. Guillelmus foelicis memoriae Raynaldi
Maleconvenientis cognomento filius donat
supradicto Monasterio (S.
Trinitatis de Venusio, n.d.r);
praesentibus Roberto Grammatico, Rogerio S.
Martini, Roberto de Sarcuni, Goffrido filio
Aitardi, Osmundo de Missanello, Goffrido
Crasso, Malgerio S. Iuliani, Nigellus
Malecumvenientia qui venit ad mortem legavit,
Roberto Grammatico, Guillelmo de S. Clari ac
Guillelmo Halecumvenientiae nepoti suo".
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A
Osmundo successe, poi, il figlio primogenito
Guglielmo, padre dei signori Alessandro e
Guglielmo
citati, come visto, nel Catalogo dei Baroni
Sembra, dunque, che intorno al 1167
la linea dinastica della famiglia Missanello si fosse
divisa in due rami: quello principale dei signori di Missanello e quello dei signori di Gallicchio, ma se del
primo conosciamo grazie a De Lellis (Famiglie nobili,
1656) tutti i
vari discendenti, del secondo non sappiamo nulla fino al
ricongiungimento con il ramo principale che avvenne,
come vedremo, alla fine del XIV secolo con Giacomo II
Messanello.
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