Nota sull’uso dei segni diacritici.
Per non
disorientare il lettore,
ho voluto
utilizzare gli stessi segni diacritici impiegati per il dizionario
nella trascrizione degli esempi in dialetto, anche se la tecnicità
dell’argomento avrebbe richiesto l’uso di alcuni segni più specifici
dell’alfabeto fonetico internazionale come per esempio la k per
la c velare, la j per i semivocale, ts per
z affricata dentale sorda ecc.. |
Introduzione
I dialetti italiani
La penisola italiana
ha un’entità geografica ben netta a cui corrisponde un’unità linguistica,
rappresentata dalla lingua italiana accanto alla quale, però, convivono
centinaia di lingue locali parlate. I dialetti italiani, non derivano in alcun
modo dall’italiano standard e non rappresentano adattamenti locali o corruzioni
della lingua nazionale, ma sono a tutti gli effetti idiomi indipendenti,
direttamente evolutisi dal latino e dotati di fonetica, grammatica e lessico
autonomi. Sarebbe per questo motivo più appropriato parlare di “dialetti
romanzi”, in parallelo con le lingue romanze. La varietà dialettale italiana, in
particolare, è la più alta all’interno delle lingue romanze: ogni minima
comunità, frazione di comune o, addirittura, gruppo di case presenta una propria
parlata, che differisce da quelle vicine anche per poche caratteristiche. Le
ragioni di questa enorme differenziazione sono storiche e sociali.
Una prima ragione
sta nel fatto che quando con l’impero romano si impose l’uso del latino, questo
si mescolò alle lingue allora parlate – ad esempio le lingue italiche – e prese
caratteri diversi a seconda dei luoghi e delle lingue con cui veniva a contatto.
Il latino parlato, dunque, non era unitario in partenza: solo l’azione della
scuola e dell’amministrazione dell’impero fece sì che, accanto ai dialetti
latini effettivamente parlati, esistesse una lingua comune per la comunicazione
fuori della propria area e per gli usi letterari e burocratici. Il crollo
dell’impero e le invasioni barbariche spezzarono questa unità; inoltre furono
introdotte nuove lingue (gotico, longobardo, greco, arabo) che si mescolarono
con quelle esistenti, in modi e proporzioni diverse secondo i luoghi. Il latino
sopravvisse, ma come lingua lontana dalla vita quotidiana, usata solo negli
ambienti colti e parlata da pochi eletti: ogni varietà locale, liberata dal peso
della tradizione, ebbe un’evoluzione autonoma e assai rapida, portando a una
capillare differenziazione. Anche dopo l’emergere del fiorentino come varietà
prestigiosa e dotata di potere unificante– anche se soltanto sul piano
letterario – il persistere della mancanza di un’unità nazionale favorì la
frammentazione locale delle parlate, almeno per l’uso quotidiano. Secoli dopo,
ad esempio, Alessandro Manzoni non usava comunicare in italiano: a casa e in
città parlava il milanese; fuori Milano, il francese; e così era per la gran
parte della popolazione milanese alfabetizzata. Solo l’unità d’Italia (1861),
con la scuola e i giornali, e soprattutto il XX secolo con la radio e la
televisione portarono elementi effettivi di unificazione linguistica.
Pur nella loro
varietà, i dialetti italiani si possono distinguere in tre grandi gruppi:
I dialetti
settentrionali si estendono a sud dell’arco alpino fino al crinale appenninico
che corre lungo una linea immaginaria che unisce La Spezia a Senigallia.
Comprendono il ligure, il piemontese, il lombardo e l’emiliano; il veneto
costituisce, all’interno del gruppo, una variante con alcune caratteristiche
fonetiche distinte. Tutti questi dialetti sono ulteriormente differenziabili al
loro interno in decine di ulteriori distinzioni. Tutti i dialetti italiani
settentrionali, nella classificazione delle lingue romanze, appartengono alle
lingue romanze occidentali e sono per questo motivo chiamati anche dialetti
gallo-italici. Nella loro struttura fonetica e morfologica è possibile
riscontrare ancora tracce degli idiomi parlati in epoca preromana, soprattutto
delle lingue di ceppo celtico; col decadere della supremazia politica e
culturale del latino, queste aree hanno maggiormente subito l’influsso delle
lingue d’oltralpe, del francese e del provenzale in particolare. Tra i fenomeni
fonetici più importanti (cfr.
Elementi di fonologia e fonetica), al di là della grande
differenziazione delle parlate locali, si possono citare la caduta delle
consonanti doppie latine (il veneto cavalo corrisponde all’italiano
“cavallo”, entrambi derivati dal latino tardo caballum), il fatto che le
consonanti sorde diventano sonore fra vocali o cadono (urtiga o urtía
in lombardo, dal latino urtica),
la presenza del suono ü da u latina (lüna, piemontese, da
luna latino).
Nell’area
settentrionale descritta sono presenti altre espressioni che sono di fatto
considerate lingue romanze, e non dialetti: sono, partendo dall’arco alpino
occidentale, il provenzale, parlato nelle valli piemontesi delle Alpi Marittime
e Cozie; il francoprovenzale, in Val d’Aosta; il ladino, parlato nelle valli fra
Trentino, Alto-Adige e Cadore; e il friulano, considerato una variante orientale
del gruppo delle lingue ladine.
Il toscano, a sua
volta distinguibile in varietà differenti di dialetti locali, è fra i dialetti
italiani quello che subì meno cambiamenti e si mantenne più simile al latino;
grazie al prestigio letterario della sua variante fiorentina, le sue
caratteristiche sia fonetiche sia grammaticali diventarono in parte quelle della
lingua italiana. Tra le peculiarità prettamente locali del toscano vi sono la
cosiddetta gorgia, ovvero la pronuncia aspirata della /c/ velare e la
costruzione impersonale del verbo alla prima persona plurale (“noi si esce”).
I dialetti
centromeridionali formano, sia per estensione geografica che per numeri di
parlanti il maggior nucleo dell’Italia dialettale. Essi possono essere divisi in
tre grandi sezioni:
a) sezione
marchigiano-umbro-romanesca;
b) sezione
abruzzese, molisano, campano, pugliese settentrionale, lucano, calabrese
settentrionale;
c) sezione
salentina, calabrese centro-meridionale, siciliano.
Tutti questi
dialetti, pur nella loro multiforme varietà presentano caretteristiche comuni,
alcune delle quali possono essere attribuite al sostrato italico come le
riduzione dei nessi consonanti nda> nna
, mb> mm (ad esempio, abruzzese munno,
latino mundo). Un altro tratto
caratteristico di una vastissima zona centro-meridionale è il passaggio del
gruppo latino pl a chi- (come in napoletano chiú, latino
plus, italiano standard “più”). e
la presenza – in alcune varietà – dei cosiddetti suoni retroflessi, ossia
pronunciati con la punta della lingua rivolta all’indietro, in particolare dd
per ll (siciliano bèddu, latino
bellus, italiano standard “bello”)
Fra le particolarità
della sezione sezione abruzzese, molisano, campano, pugliese settentrionale,
lucano, calabrese settentrionale vi è il dileguo delle vocali finali
nell’indistinta /ë/. Un carattere
importantissimo dei dialetti centro-meridionali è la diffusione della
metafonesi, ossia l’alterazione fonetica della vocale accentata, che si presenta
sotto due principali tipi. L’ uno, che si può definire “napoletano”
chiude le vocali /é/ (< ē, ĭ latine) e /ó/ (< ō, ŭ latine) in /i/ e /u/
quando le vocali finali atone finale siano state –ĭ ed –ŭ. Nelle stesse
condizioni le vocal toniche è (<ĕ) e ò (< ŏ) danno luogo a dittonghi vari.
L’alro tipo di metafonesi detto “ciociaresco o arpinate, mentre concorda con il
tipo napoletano per il trattamento delle vocali chiuse, se ne differenzia in
quanto non riduce le vocali aperte /è/ e /ò/ a dittonghi ma alle vocali chiuse
/é/ e /ó/. Fenomeno originariamente solo fonetico, specialmente dopo la caduta
o la riduzione delle vocali finali, la metafonesi ha assunto un valore
morfologico nella differenziazione del singolare dal plurale o del femminile
dal maschile.
Le varietà dei dialetti lucani hanno i caratteri
distintivi tipici altre lingue centro-meridionali, ma si differenziano per
alcune particolarità che li pongono in una posizione di grande rilievo
nell’insieme delle parlate romanze che si stendono dall’ Atlantico al mar Nero e
dal canale della Manica alla sicilia.