A Gallicchio, come in ogni parte del mondo in cui si sono coltivati i
cereali, i contadini nel corso dei secoli
hanno
usato diversi sistemi per
sgranare le spighe di grano per farne uscire i chicchi.
Nonostante
negli anni trenta del XX secolo fosse apparsa la trebbiatrice
azionata dal motore a scoppio, fino agli inizi anni '50 molti
contadini utilizzavano
ancora la
tecnica di trebbiatura tradizionale.
La
trebbiatura si svolgeva sull'aia, ampio spazio
di forma circolare antistante le
masserie, del diametro mediamente di 10 metri. L' area dell’aia era delimitata da cordoli in pietra, mentre il
pavimento era costituito, di solito, da un ciottolato di pietre.
Terminata la mietitura le messi venivano trasportate sull'aia con i carri o con le tregge tirate da buoi,
per essere ammassati man mano dalla abili mani dei
contadini fino a formare delle biche più piccole (i vardéllë)
o più grandi (i cavàllë), coperte alla sommità dagli stessi covoni a
mo' di tetto spiovente per evitare l'infiltrazione di acqua in caso
di pioggia.
Sulla
sommità dei
«cavàllë» veniva collocata, come buon augurio per un
abbondante raccolto, una composizione, detta «sandumartìnë»,
che era formata da un insieme di mazzetti di spighe, legati tra loro sino al
collo in modo che le ariste di ciascun mazzetto formassero un
ventaglio o un ciuffo.
Prima
della trebbiatura si ponevano nell'aia in cerchio i
covoni slegati e aperti nella giusta quantità
, quindi si legava al giogo, portato da due buoi, una grossa pietra la
quale strisciando sulle spighe
le
sgranava. Dietro gli animali che calpestavano le spighe e
trascinavano la pietra c'erano sempre degli uomini che
ammassavano e rivoltavano la paglia, eliminandola man mano con
forche di legno a due rebbi(furchìšënë) o tre rebbi (furcéllë).
Una volta eliminata la paglia grossa, i residui piccoli, spighe
rimaste intere o altri elementi estranei, venivano raccolti con
un rastrello. Altri operai nel frattempo ammucchiavano il
grano da pulire con le pale e recuperavano dietro di loro i chicchi
rimasti con scope di saggina o di ginestra. A questo punto bisognava separare
i chicchi dalle impurità con cui si erano mescolati: la pula (cioè gli involucri che si
erano staccati dalle spighe durante la trebbiatura) piccoli frammenti di
paglia, sassolini, terra ecc.. Questa operazione veniva effttuata in due
modi: la ventilazione e la crivellazione.
Il grano da pulire veniva lanciato in aria con le pale di legno, cercando di sfruttare l’azione del vento e l’effetto del lancio:
era un lavoro che poteva durare anche alcuni giorni.
Per
una pulitura più accurata veniva usato il crivello (a iëràlë),
un setaccio
con bordo basso e fondo provvisto di fori più o meno grandi (quello
da grano aveva i fori più piccoli). Diventato
pulito, il grano veniva misurato con un recipiente di legno della
capacità di 25 kg. detto
«mìenżë-tùmmënë», messo nei sacchi e immagazzinato.
Nelle
nostre campagne il sistema di trebbiatura con la macchina cominciò
ad affermarsi a scapito del sistema a tradizionale nel corso degli
anni '50. Verso il 15 luglio di ogni anno
le trebbiatrici
cominciavano a far il giro dei luoghi in cui tutti i
contadini della stessa zona avevano eretto le proprie bighe,
luoghi di facile accesso alle macchine e in vista di una
masseria per evitare incendi dolosi, colposi o casuali.
La
trebbiatura iniziava
una volta che tutte le apparecchiature occorrenti erano
state sistemate. Davanti alla
trebbiatrice veniva posizionata l'imballatrice: le macchine dovevano
lavorare in piano e ciò si otteneva o affossando una e più ruote, o
mettendo delle assi di legno sotto le ruote più basse. Dietro alla
trebbiatrice veniva messo il trattore che azionava la macchina mediante un
comando a grossa cinghia, larga da 15 a 20 cm e dello spessore di
quasi un centimetro (u cignónë).
I primi modelli di
trebbiatrici
richiedevano che i covoni venissero introdotti direttamente nel
battitore dal barcone della trebbia, per questo venivano ribaltate
le sponde laterali della macchina poste nella parte
superiore, che erano rinchiuse verso l'alto durante le fasi di
trasferimento, su
queste e posteriormente venivano messe altre sponde verticali e
perpendicolari alle prime per meglio delimitare il piano di
lavoro, quindi una o più persone buttavano
con le forche i covoni sul pianale dove una persona tagliava i
legacci. Sul piano di lavoro della trebbiatrice c' era una
tramoggia dentro la quale girava ad elevata velocità un rullo
sgranatore denominato, battitore. Davanti
alla tramoggia c' era una buca nella quale prendeva posto uno dei
due addetti alla trebbiatrice che sporgeva dal piano di lavoro dalla
cintola in su: il suo lavoro consisteva nel buttare
nella tramoggia
i covoni
slegati. Negli anni sessanta con l'evoluzione tecnolgica, per motivi antinfortunistici, venne messo a punto un
sistema di inserimento delle spighe mediante un nastro trasportatore
che veniva orientato verso il punto in cui l’ammasso di grano
prodotto era più alto.
Da apposite
bocchette poste nella parte posteriore della trebbiatrice uscivano i
chicchi di grano che erano raccolti normalmente in un contenitore
metallico cilindrico
che conteneva sempre
«mìenżë-tùmmënë»
di grano,
all'incirca 25 kg. Quando era
pieno, si chiudeva la bocchetta d'uscita del grano, si calzava sul
«mìenżë-tùmmënë» un sacco, e due uomini impugnandolo per apposite maniglie,
lo vuotavano nel sacco stesso. I sacchi erano portati a spalla da
due o tre uomini a destinazione che poteva essere o l'aia, o un
porticato, oppure il solaio.
Dalla
parte bassa anteriore della trebbiatrice usciva in basso la pula (a
iùschë), mentre dalla parte alta anteriore usciva la paglia,
che ricadeva sulla parte posteriore dell'imballatrice; questa parte
dell'imballatrice era inclinata, munita di sponde fisse e di un
sistema di trascinamento che portava la paglia fino ad un punto dove
era spinta nella zona d'imballaggio da un pestello a forma di prisma
a base quadrata che si alzava e si abbassava alternativamente. La
paglia era compressa e imballata da un pesante carrello dotato di
moto alternativo.Gli addetti
all'imballatrice avevano il compito di posizionare delle forcelle
che servivano a delimitare la lunghezza delle balle di paglia e
facilitavano il passaggio dei fili di ferro che servivano a legarle.
I fili di ferro, preparati a parte con un apposito attrezzo, avevano
ad una sola estremità un occhiello, erano perfettamente tesi
e tutti della stessa lunghezza.
Nonostante
fosse molto faticosa perché eseguita al sole in piena estate con
l'immancabile contorno di un polverone che si attaccava subito sulla
pelle
bagnata di sudore, in un rumore quasi monotono e assordante,
la trebbiatura era un momento di grande allegria
. Un abbondante
pranzo era servito alla fine
della giornata di trebbiatura. Ad esso
partecipavano tutti quelli che avevano
collaborato ai lavori, un riguardo
particolare era riservata ai macchinisti (i
trëbbëìstë).
Anche la
trebbiatrice è una macchina che ormai
appartiene al passato, sostituita
dalla
mietitrebbia che esegue la trebbiatura
contemporaneamente alla mietitura. Oggi le macchine
arrivano direttamente nei campi e tagliano tutto; mietitura e
trebbiatura si compiono in meno di un’ora per campo; la paglia viene
lasciata per terra e imballata subito dopo. I gesti lenti, manuali,
aggraziati dei contadini sono sostituiti dai movimenti meccanici,
rapidissimi e freddi di enormi macchine che corrono frettolosamente
da un campo all’altro. |